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Mercoledì 02 Marzo 2016 19:03

Una madre d’oltralpe penalizzata dai tribunali liguri per aver difeso la propria figlia

 

La Giustizia minorile del tribunale di Genova

tra fallimento, incompetenza ed arroganza

 

 

Non vogliamo essere considerati dei giustizialisti ma nemmeno siamo disponibili a subire lo strapotere di alcuni giudici che fanno del tribunale un loro feudo e che, senza alcun controllo, negano ai semplici cittadini, italiani ed europei, l’elementare diritto alla giustizia.

Non sappiamo se il Ministro della Giustizia si ponga effettivamente la questione del funzionamento di alcuni tribunali e se consideri l’ipotesi - doverosa a nostro parere – di destinare ad altra occupazione tutti coloro che, nel loro quotidiano operare, sembrano ignorare la legge. Sorte non diversa dovrebbe essere riservata ai loro diretti superiori. Alcuni presidenti dei tribunali, se allertati per le inadempienze e/o irregolarità di alcuni giudici, invece di ascoltare i reclamanti e verificare le loro tesi, li azzittiscono in nome dell’alta professionalità dei giudici contestati.

Ci lascia perplessi quando gli esposti sulla “discutibile” attività di alcuni giudici supportati da denunce, precise e scientificamente documentate, di fatti concreti rimangono a lungo – talvolta per sempre – nei cassetti di corti d’appello, ministero, Csm, procura generale presso la Cassazione, di garanti dell’infanzia nazionali e regionali. Il loro silenzio, se troppo lungo, potrebbe far sorgere inquietanti dubbi sull’uguaglianza dei cittadini e sulla inutilità di certe istituzioni fondamentali per la sopravvivenza della società poiché si radicalizza la certezza che quando la giustizia è incapace ad applicare la legge la nostra società è giunta al capolinea.

Questi i fatti.

Il Tribunale per i minorenni di Genova, investito di un presunto caso di abuso sessuale da parte di un padre sulla figlia di otto anni con lui convivente da parte della Procura della Repubblica di Sanremo/Imperia, condanna immediatamente e senza appello la madre che aveva formulato la denuncia, su insistenza della Questura di Imperia, che aveva ricevuto una segnalazione da Telefono Azzurro.

E’ l’inizio dell’epilogo di una vicenda da incubo sia per la madre, per i nonni e per i cittadini tutti.

La madre, alcuni anni prima, si era vista tolta la figlia all’età di due anni e mezzo perché - su denuncia del padre mentre lei si trovava in ferie con la minore dai nonni materni in Francia - avrebbe sottratto la piccola al convivente per espatriare in un paese africano.

Il solerte Pm della Procura della Repubblica presso il Tribunale minorile di Genova, il giorno successivo alla presentazione della denuncia per eventuali abusi sessuali paterni, era già in grado di sentenziare – forse perché dotato di potenti facoltà divinatorie non avendo fatto alcuna indagine – che i fatti prospettati dalla madre erano inesistenti e che la stessa si era inventato tutto per vendicarsi del padre che le aveva sottratto la figlia. Conseguentemente alle sue “dovute” conclusioni, chiedeva al tribunale minorile: di sospendere immediatamente gli incontri liberi figlia-madre e predisporre quelli protetti in presenza di una educatrice, oltre all’attivazione dell’iter per la decadenza della responsabilità genitoriale materna.

Il tribunale, ha subito decretato di delegare i servizi sociali del comune di residenza della minore con un mandato generico per far seguire la minore dal servizio psichiatrico dell’Asl, per predisporre incontri protetti in presenza di una educatrice con l’obbligo di riferire allo stesso eventuali anomalie. Dopo quattro mesi – periodo in cui la bambina non sapeva dove fosse finita sua madre o meglio era continuamente “bombardata” da padre e company del suo abbandono - sono iniziati gli incontri protetti con cadenza quindicinale e per la durata di 90 minuti. Quando la madre non poteva parteciparvi per motivi di lavoro, tali incontri non venivano recuperati per la indisponibilità del padre ad accompagnare la figlia; nel periodo natalizio e a seguire il giorno del suo compleanno, il 13 gennaio, la signora non ha mai potuto incontrarla per fittizi pretesti dei servizi stessi (molto vicini al padre e ai suoi familiari) che da subito si sono dimostrati ostili e prevenuti nei confronti della donna straniera (francese di origini nobili).

Ogni pretesto era buono per sospendere gli incontri protetti per lunghi periodi, fino ad oltre sei mesi, e per permettere al padre di ascoltare abusivamente gli incontri madre-figlia per conoscere cosa la minore avesse raccontato alla genitrice. I servizi arrivarono a costringere la madre a parlare in italiano con la figlia, pur sapendo che la stessa ne conoscesse solo poche parole; che la figlia parlasse molto bene il francese e che l’educatrice conoscesse bene la lingua d’oltralpe. La cittadina ligure dove vive la bambina – molte volte agli onori della cronaca nera - dista pochi km. dal confine francese.

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Giovedì 25 Febbraio 2016 17:31

Una madre d’oltralpe penalizzata dai tribunali liguri per aver difeso la propria figlia


In nome della Legge!

Ma siamo proprio certi?


Una francese di buona famiglia frequenta un italiano della riviera ligure e rimane incinta ma il fidanzato le impone di abortire per la seconda volta. Lei si rifiuta e la sua vita diviene un inferno: violenze e minacce di ogni genere per indurla ad interrompere la maternità e per costringerla a recarsi in Inghilterra poiché, a dire dell’uomo, tale pratica si effettuava fino al quinto mese. L’uomo, di origine meridionale e con una parentela agli onori della cronaca “per prodigi religiosi” e per attività malavitosa in una città chiacchierata per quest’ultime inquietanti e devianti presenze, non accettava il rifiuto della donna, ritenuto, per ancestrale retaggio culturale, come un oltraggio al maschio dominante.

La signora, in attesa della nascita della bambina, per sottrarsi alle angherie dell’ex fidanzato e dei suoi “inviati”, su consiglio del medico di famiglia, dovette abbandonare la ridente cittadina francese della Costa Azzurra e rifugiarsi presso i propri genitori che vivevano ad ottocento km. di distanza. Una volta partorita e riconosciuta la figlia, fece avvisare il padre dell’evento, il quale, dopo alcuni giorni si recò in ospedale, insultò la madre, non chiese di vedere la figlia e, il giorno dopo, la riconobbe in ritardo. Aspettò le dimissioni dall’ospedale di madre e figlia, con sospetti problemi fisici, e fece subito rientro in Italia.

La bambina, dopo alcune settimane fu nuovamente ricoverata in ospedale e il padre, informato, si rifece vivo in Francia, proponendo alla madre di iniziare una convivenza assieme alla figlia in un appartamento da lui preso in affitto, vicino alla sua vecchia madre, la quale dopo decenni di residenza in Liguria, ancora parla quasi esclusivamente in dialetto meridionale.

La signora, dopo un periodo di riflessione e dopo essersi consultata con i propri genitori e familiari, acconsentì a trasferirsi in Italia, dove si inventò un proprio lavoro artigianale per pagarsi il mutuo del locale (acquistato da lei, ma intestato, però, a nome del compagno), l’affitto dell’abitazione familiare e per mandare avanti la casa poiché il compagno sosteneva che con i suoi introiti avrebbe costruito una casa tutta per loro!

L’uomo, approfittando che la sua compagna non parlava e comprendeva la lingua italiana, fece modificare, all’insaputa della madre, il cognome della figlia facendo anteporre il proprio cognome a quello della madre, avendola riconosciuta ancor prima della nascita, come prevede la legge francese, mentre il padre lo fece dopo i tempi previsti.

Quasi da subito iniziarono le difficoltà poiché il compagno volle ritornare a stare con la propria madre, la quale considerava la signora – perché straniera e per di più francese – incapace a gestire la nipote e la riteneva responsabile di averle sottratto con inganno l’adorato figlio (l’unico maschio e il più piccolo) amante della bella vita, della palestra e delle escursioni in moto e in bici. La madre della bimba quando rientrava dal lavoro non era libera nemmeno di prendere in braccio la propria figlia perché, nell’indifferenza del padre, la “suocera” glielo impediva.

 

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Giovedì 25 Febbraio 2016 17:23

Riflessioni a margine della tragica vicenda di Recanati


La madre viene sempre giustificata

anche quando è un pericolo per i propri figli


Ospitiamo un interessante contributo di un avvocato marchigiano esperto di tematiche socio-psicologiche minorili. Il suo intervento “vuole essere solo il contributo costruttivo di un padre che lotta per vedere con regolarità i propri figli” e che mette in evidenza le profonde contraddizioni di un sistema giudiziario italiano. *

Taluni giorni fa è capitato un evento tragico dalle mie parti - chi scrive è un padre marchigiano - cui tutti i telegiornali hanno dato il dovuto risalto: una madre, pur di non far vedere il proprio figlio all’ex compagno, l’ha ucciso con un coltello e si è poi suicidata. Una notizia tragica che ha lasciato tutti sgomenti e increduli. Già un anno prima, sempre da queste parti, è accaduto un evento simile: una mamma alla quale l’affidamento del figlio stava per essere cambiato in favore del padre, ha ucciso il proprio figlio.

Ma perché, perché succedono queste cose? E’ una domanda che si deve alzare con voce vigorosa e che non può essere liquidata come l’atto isolato di una squilibrata. La cosa che indigna è che quando succedono questi fatti la tendenza è quella di non colpevolizzare nessuno e meno che mai la madre, poiché il coro che si alza è che la donna non è stata compresa e non sono stati colti i segni di un disagio psichico, ben celato da sorrisi di circostanza o da una ostentata serenità esteriore.

Al padre, considerato quasi un lontano parente, uno zio acquisito, un inutile orpello, nessun pensiero. Ma se tali comportamenti fossero stati realizzati dal marito o padre ecco che si parla puntualmente di violenza femminicida, ecco che parte la grancassa mediatica che etichetta come mostri i mariti e come bambinoni incapaci di ruolo educativo i padri.

Perché, perché questi due pesi e due misure? Perché l’uomo deve sempre dimostrare di essere un padre perfetto pur di vedersi affidati i propri bambini nei casi in cui la possessività e la gelosia della madre è capace di atti inimmaginabili.

La questione  - è evidente - non si pone in relazione ai fatti che ho narrato, che rappresentano eventi eccezionali, ma si pone in tutti quei casi in cui il padre è ostacolato nei diritti di visita della prole dalla ex moglie, che si fa forte del rapporto privilegiato e continuo che ha col figlio per allontanare, denigrare, sminuire o offendere la figura paterna, una situazione che può essere macroscopica ma che può essere anche più sottile e strisciante e che magari può manifestarsi anche in coppie formalmente sposate e conviventi. Ciò che successo è solo la punta di iceberg, mentre il grosso del ghiaccio giace sotto il pelo dell’acqua, invisibile ai più e all’opinione comune.

 

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Lunedì 22 Febbraio 2016 17:58

­­­Il diritto dei minori tra la confusione giudiziaria

e quella dei servizi degli enti territoriali

 

Avv. Gerardo Spira*

Ormai la giustizia minorile ha perduto il filo del discorso giuridico nella materia dei minori, rendendosi responsabile della situazione che oggi vivono la famiglia e la società.

Ciò è accaduto in un clima di discussioni contorte sulle ragioni delle coppie in lite, avallate e sostenute da soggetti più o meno preparati ed impegnati, che azzardano e si spingono in teorie cavillose che non hanno nulla di riferimento con la legge, con la logica del diritto e con i principi di salvaguardia dei diritti dei minori.

Le questioni semplici vengono ubriacate nel cammino giudiziario da eccezioni e supposizioni di natura psicologica o psichiatrica che alla fine pregiudicano lo stato di equilibrio dei contendenti e soprattutto la vita del minore.

Il risultato finisce per consegnare alla società un soggetto, menomato rispetto agli altri e facilmente vulnerabile nella condizione psicologica, intorno a cui sono cresciute le più azzardate teorie.

Intanto il danno è fatto e nessuno ne risponde, mentre tutti i responsabili delle istruttorie, dei pareri e delle decisioni continuano ad estrarre teorie, fabbricando decisioni contro l'uno o l'altro dei genitori.

Nel nostro Ordinamento costituzionale esiste un corollario che se applicato correttamente potremmo vivere una vita di relazioni e di rapporti più giusti, meno dispendiosi e soprattutto meno conflittuali.

L'art. 97 della costituzione detta:” I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione.

Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.

Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge.

 

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Venerdì 19 Febbraio 2016 16:31

Sull’operato del Centro antiviolenza di Terni

chiesti chiarimenti alla Giunta regionale

 

Il Consigliere regionale Sergio De Vincenzi con una interrogazione urgente alla Giunta regionale chiede “chiarimenti sui Centri antiviolenza operanti nel territorio regionale e chiede di conoscere gli intendimenti della Giunta regionale per garantire forme di controllo sul loro operato e sul loro funzionamento”.

Nella interpellanza si fa esplicito riferimento al Centro antiviolenza di Terni “Liberetutte” e alle strutture parallele dallo stesso gestite, partendo dalla triste vicenda di quel padre naturale falsamente denunciato dalla convivente extracomunitaria per maltrattamenti in famiglia contro di lei e contro il loro figlioletto di appena due anni, costretto a non vedere il figlio per tanto tempo.

La signora si allontana dalla casa familiare perché, a suo dire in presenza di una pattuglia, non voleva stare più in quella casa ed escludeva di aver subito maltrattamenti fisici. Aveva già concordato con una associazione di Orvieto la sua accoglienza nella casa famiglia “Libera…mente Donna” gestita dal Centro antiviolenza ternano. Il padre, per non disorientare il bambino, si era offerto di andarsene lui dalla sua casa, ma lei non accettò perché asseriva di sentirsi a rischio. La vera ragione era che voleva fare la sua vita e voleva un cospicuo assegno di mantenimento per il figlio.

Il padre verrà a sapere dove si trovava il suo figlio solo dopo cinque mesi, perché anche i servizi sociali si rifiutavano di dargli informazioni. Rivedrà il minore, con modalità protetta per 90 minuti alla settimana e dovendo percorrere oltre duecento chilometri ogni volta, solo dopo sette mesi in presenza di una educatrice, che vietava al padre di portare al figlio piccoli regali e lo ha ripreso energicamente perché gli aveva dato una caramella e perché, a suo dire, era un modo per corrompere il proprio figlio!!???!

Il giorno dopo il suo allontanamento, con una dichiarazione spontanea ai carabinieri del luogo, parlava di maltrattamenti verbali e fisici, di un compagno alcolizzato e drogato (fatti smentiti dall’intero paese e dai risultati del Sert) che costituiva un pericolo fisico per sé e per il figlio; dopo una quindicina di giorni presentava una pesante denuncia contro il padre di suo figlio chiamando a testimoniare le sue amiche.

 

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Martedì 16 Febbraio 2016 18:44

Il caso del Centro antiviolenza di Terni

diventa un caso politico alla regione Umbria

 

Interrogazione urgente

del consigliere regionale De Vincenzi Sergio

 

I Centri antiviolenza operanti nel territorio regionale. Intendimenti della Giunta regionale per garantire forme di controllo sul loro operato

 

  • Premesso che i centri antivioienza costituiscono un prezioso strumento per il sostegno e la protezione delle donne e dei minori vittime di violenza;
  • Premesso che in Umbria i Centri Antivioienza sono stati costituiti a seguito dell'adesione al progetto del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri "Avviso per il sostegno ai Centri Antiviolenza ed alle strutture pubbliche e private finalizzato ad ampliare il numero di servizi offerti alle vittime la cui incolumità sia particolarmente a rischio e per l’apertura di Centri antiviolenza a carattere residenziale nelle aree dove è maggiore il Gap tra la domanda e l’offerta”;
  • Premesso, altresì, che i centri antiviolenza assicurano, tra l'altro, un'importante funzione di promozione e di organizzare di iniziative di sensibilizzazione e d'informazione per la prevenzione ed il contrasto della violenza di genere;
  • Preso atto, tuttavia, in base a quanto riportato dalla stampa locale e da alcuni siti internet, della vicenda accaduta nel temano che ha visto coinvolto il padre di un bambino di appena due anni accusato dalla compagna di maltrattamenti verso di lei e verso il proprio figlio;
  • Preso atto, più in particolare, che la donna, in accordo con un centro antiviolenza, si sarebbe allontanata dall'abitazione coniugale unitamente al figlio e sarebbe stata accolta in una residenza protetta di Terni perché vittima di maltrattamenti da parte del compagno;
  • Preso atto, altresì, che la medesima donna avrebbe denunciato alle competenti autorità il proprio compagno per violenza e maltrattamenti in famiglia contro di lei e contro il figlio e si sarebbe rivolta, inoltre, al Tribunale per i minorenni di Perugia per chiedere la decadenza della responsabilità genitoriale del padre;
  • Preso atto, a quanto consta, che il padre sarebbe stato tenuto all'oscuro per mesi di dove si trovasse il figlio e, anche successivamente, lo avrebbe potuto incontrare solo per brevi periodi e, per di più, in modalità protetta;
  • Preso atto che, di fatto, all'esito del procedimento giudiziario il Giudice per le indagini preliminari ha archiviato la denuncia proposta dalla donna per l'assenza di elementi comprovanti gli asseriti maltrattamenti;
  • Preso atto, altresì, che anche il Tribunale per i minorenni di Perugia ha rigettato 1istanza della donna volta ad ottenere la decadenza della responsabilità genitoriale patema;
  • Preso atto, tuttavia, che nonostante il fatto che l'Autorità Giudiziaria abbia archiviato la denuncia la donna continuerebbe ad essere ospitata con il figlio in un centro antiviolenza senza alcuna apparente motivazione;

Tutto ciò premesso e considerato.

INTERROGA

la Giunta regionale per conoscere:

  • se ha mai erogato contributi ai centri antiviolenza operanti nel territorio regionale e, in caso affermativo, a quanto ammontano tali erogazioni negli ultimi tre anni;
  • se e come la Regione opera una verifica della correttezza dell'impiego dei finanziamenti eventualmente erogati;
  • quanti sono stati gli interventi effettuati ed il numero di donne e di minori stati accolti nei centri antiviolenza della regione;
  • quali forme di controllo sono state intraprese o si intende intraprendere per verificare la correttezza dell'operato dei centri antiviolenza sia in termini di spesa che dei servizi erogati.

Perugia, 5 febbraio 2016

Il Consigliere Regionale Sergio De Vincenzi Gruppo consiliare “Ricci Presidente”

 
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Mercoledì 10 Febbraio 2016 11:16

Case famiglia, comunità protette, famiglie affidatarie

Un business per tanti e senza nessun controllo

 

Dagli orfanotrofi alle case famiglia, agli istituti protetti e alle famiglie affidatarie il passaggio è stato breve e da un ruolo supplente di certe strutture di volontariato si è passati a strutture “razionalizzate” e finanziate con tanti soldi inserite in un piano di politiche sociali. Ciò ha comportato la reinvenzione del ruolo dei servizi sociali che da interventi assistenziali generici sono divenuti “gestori” delle problematiche sociali, soprattutto minorili e familiari. Tutto bene, si dirà. Ma non è stato così perchè si è costituita una casta che fa il bello e il brutto tempo nella gestione delle emergenze e, purtroppo, anche nel crearle anche laddove non esistono.

La politica va a nozze con questa istituzione della pubblica amministrazione che, assieme ai vari centri di genere e delle strutture legate alla tutela dei minori e della famiglia da essa “protetta”, porta consensi elettorali e - perché no? - anche tanti soldi nelle tasche di chi non ne ha diritto. Questo spiega perché i vari assessori regionali e comunali, come i responsabili delle istituzioni, si arrabbiano se si chiede loro chiarezza, trasparenza e controlli veri. Per loro tutto va bene a prescindere delle evidenti incongruenze. Questo modo di fare, però, alimenta solo i dubbi sulla loro opportunità di esistere così come funzionano attualmente.

E’ ormai inderogabile una gestione trasparente dei servizi che tanto costano alla collettività e che spesso sono dannosi anche a chi dovrebbero essere tutelati. Occorre, in primo luogo, vedere e sapere chi sono i “padroni” di tutte queste strutture, quali collegamenti possano esistere con i politici che amministrano la cosa pubblica e con i dipendenti della pubblica amministrazione e quali lobby di fatto gestiscono questa importante fetta dei servizi sociali.

Fatta chiarezza ed eleminato qualsiasi dubbio, l’amministratore pubblico non può eludere l’obbligo di mettere in campo un protocollo d’intesa per la gestione dei servizi sociali e delle varie strutture ad essi collegate, determinandone finalità, relative modalità attuative, tempi precisi e non discrezionali, oltre ai modi e tempi delle verifiche obbligatorie. Precisate le modalità di operare è possibile anche il monitoraggio della loro efficienza tramite una commissione valutativa, professionalmente competente ed esterna ai servizi sociali stessi e all’assessorato di riferimento.

Fare chiarezza vuol dire eliminare eventuali inefficienze e allontanare dal servizio persone ed interessi che nulla hanno a che vedere con il servizio da erogarsi.

 

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Martedì 09 Febbraio 2016 10:12

Orfanotrofi. Umiliati e offesi


In Italia le strutture per minori sono un mondo opaco, dimenticato dalla legge e dall'opinione pubblica. Tantissimi bambini lasciati nelle comunità, perché darli in adozione significa far perdere la retta all'istituto che li ospita. Anni perché i tribunali prendano decisioni

di  Lidia Baratta*

 

Figli dello Stato. Figli di nessuno. I minori, orfani o allontanati dai genitori, parcheggiati nelle case famiglia e nelle comunità di tutta Italia sono circa 30-35mila (anche se dati certi non ne esistono). Bambini alle prese con la burocrazia già a uno, due, tre, quattro anni. Entrano in una struttura, in attesa di tornare a casa o essere adottati, e non sanno quando ne usciranno. Incastrati in un mondo nebuloso fatto di cooperative, istituzioni, servizi sociali e tribunali in cui circolano fiumi di denaro. Un miliardo di euro l’anno, o forse più. Delle strutture che li ospitano non si sa neanche quante siano – il Garante per l’infanzia ha pubblicato la prima raccolta dati sperimentale solo a novembre 2015. Né si sa quanto costino davvero alle casse pubbliche, visto che le rette da pagare variano dai 40 ai 400 euro al giorno. Erogate finché il minore resta tra le mura della comunità. E un bambino adottato in più, significa sempre una retta in meno.

La media di permanenza nelle strutture è di circa tre anni. Anche gli affidamenti temporanei, che dovrebbero durare al massimo due anni, spesso vengono rinnovati diventando sine die. In attesa di un decreto del tribunale dei minorenni che, a volte, non arriverà mai. Tant’è che su diecimila coppie che chiedono di adottare un bambino italiano, solo una su dieci alla fine ci riesce (leggi l'articolo sul disastro delle adozioni in Italia)

Business case famiglia. Niente controlli, niente trasparenza. Si spendono fino a 150 mila euro l'anno a bambino

Quelli che chiamavamo orfanotrofi, con i letti e castello e le camerate comuni, in teoria dal 2001 non dovrebbero esistere più. Ora si parla di case famiglia, dove una coppia ospita un numero ridotto di minori cercando di riproporre la formula familiare. O di comunità, educative o terapeutiche, gestite da addetti ai lavori. Ma in questo caso siamo alla vecchia formula che doveva scomparire e che invece rimane: è cambiato solo il nome.

La retta per ogni bambino ospitato viene pagata dai Comuni. Ma un tariffario nazionale di riferimento non esiste. Ognuno fa a modo suo, come se si trattasse di un mercato qualunque. Le rette più basse si pagano al Sud, dove si toccano anche i 40 euro al giorno. Quelle più alte vengono richieste nelle comunità terapeutiche, giustificate anche dalla presenza di personale più qualificato, oltre che di psicologi e psichiatri incaricati dalle Asl. Ma anche qui le escursioni di prezzo sono enormi: da 70 fino a oltre 400 euro. Per un totale di 150mila euro all’anno per un solo bambino. E i Comuni pagano. Quando non se lo possono più permettere, le strutture chiudono e i bambini vengono parcheggiati altrove, dove c’è qualcun altro disposto a pagare. Come è successo alla comunità “Hansel e Gretel” di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno.

La retta per ogni bambino ospitato viene pagata dai Comuni. Ma un tariffario nazionale di riferimento non esiste. Ognuno fa a modo suo, come se si trattasse di un mercato qualunque. Si va dai 40 fino ai 400 euro. Per un totale di 150 mila euro all’anno per un solo minore

«Spesso le somme richieste non sono giustificate», dice Cristina Franceschini, avvocato e presidente della onlus “Finalmente liberi”. «Sono somme che i comuni potrebbero versare alle famiglie in difficoltà per attuare un progetto alternativo ed evitare che i figli vengano allontanati». Il collocamento del bambino nella comunità deve essere l’ultima soluzione. Lo dice anche il garante per l’infanzia. Ma sempre più spesso diventa la prassi.

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